Scrivo questo articolo, da abitante della splendida Valfurva, tra mille perplessità e mille perché riguardo ad alcuni comportamenti e certe decisioni prese qui, da parte anche di miei compaesani.
Viviamo in mezzo alle Alpi abbracciati da una natura straordinaria – quella dell’Ortles/Cevedale e del Parco Nazionale dello Stelvio – ai confini con il Trentino e l’Alto Adige, dove, con la natura che la Terra ci ha donato, viviamo e cerchiamo di crearci uno spazio nell’élite delle località alpine. Ecco, è proprio per questa ricerca di turisti e visibilità che, forse troppo spesso, perdiamo di vista la cosa fondamentale: la salvaguardia di quello che proprio la Terra ci ha donato. In quest’ottica ci sono due domande che mi sono posto più volte nella mia vita.
Fino a dove si può spingere lo sfruttamento ambientale da parte dell’uomo? Fino a dove ci si può spingere per interessi economici?
Il modello economico alpino
Faccio una premessa d’obbligo per questo scritto; non sono una persona che odia lo sci su pista. Ho passato anni della mia vita ad imparare ed affinare la tecnica, a risalire pendii a bordo di comode (ed a volte scomode) seggiovie, perché d’altra parte quando si vuole imparare a sciare, volente o nolente si passa sempre delle “autostrade bianche”. Nonostante lo sci non sia nato su piste e funivie: quelle sono arrivate dopo, diventando parte integrante del paesaggio alpino e soprattutto della storia turistica e culturale di molti angoli delle Alpi, tra le quali anche il mio, dove si sono disputati due mondiali ed ora ci apprestiamo ad ospitare con un certo orgoglio le Olimpiadi del 2026.
Lo sci alpino deve rimanere parte integrante delle località che lo hanno sviluppato, nessuno dice di dismetterlo. Quello che è stato costruito come impianti va mantenuto ed aggiornato – cercando di evitare di costruire altro – ma soprattutto si deve cercare di far crescere un’offerta che vada al di fuori degli impianti, perché contro la dura realtà della crisi dello sci ci abbiamo già sbattuto, solo che non abbiamo il coraggio di ammetterlo, con la scusa della salvaguardia dei posti di lavoro e dell’economia locale, incentrata su quello da decenni (e quindi difficile da cambiare in poco tempo), unita anche ad una scarsa educazione delle persone alla montagna.
L’innevamento artificiale
Di tutto questo grande, complicato e costoso (per i contribuenti) mondo dello sci, c’è però una pratica che non mi piace per nulla: l’innevamento artificiale. E’ una cosa che non digerisco, detesto i cannoni come poche altre cose, sono un modo alquanto bizzarro per tentare di rimediare ad un cambiamento climatico sotto gli occhi di tutti. È come se con la tecnologia potessimo sentirci in diritto di fare tutto, anche imbiancare montagne che la natura non vuole imbiancare. Tutto, al di fuori di cercare strade alternative alla mono cultura dello sci che, secondo tanti, non può essere cambiata.
La neve OGM è una cosa talmente stupida, costosa ed inutile che non la capirò mai, tutto principalmente per far gareggiare atleti, sempre alla ricerca di neve più ghiacciata e quindi simile a quella artificiale, e far divertire amatori nella loro discoteca a cielo aperto, perché purtroppo lo sci sta diventando sempre più questo; un parco divertimenti in alta quota più che uno sport.
Diffidate sempre da quelli che sostengono che la neve artificiale è un “prestito” fatto alla natura: è una sciocchezza talmente grande che solo un direttore di una skiarea può permettersi di dire, insieme a qualche invasato delle autostrade bianche. Quando andiamo a captare acque, a realizzare bacini artificiali per l’innevamento, qualcuno sa che forse andiamo a modificare qualche delicato ecosistema? Certo, l’acqua torna sempre alla natura alla fine del ciclo, ma chimicamente non è più la stessa ed ormai un equilibrio è andato perso, perché la natura è questo: un insieme di delicati equilibri. Fare questo per produrre energia elettrica pulita per la collettività è, sotto alcuni aspetti, accettabile, ma per innevare una pista da sci, proprio no.
Il Lago Bianco
Ecco, quello in foto è il famoso Lago Bianco del Passo Gavia, un capolavoro di madre natura a 2600 metri di altitudine, che sorge su uno dei valichi stradali più alti delle Alpi, tra Valtellina e Valcamonica. Proprio questo bacino naturale, con una decisione presa negli anni ‘90, doveva essere usato per l’innevamento artificiale dalla S.C.I. (Santa Caterina Impianti). I lavori erano partiti con la posa di diversi chilometri di tubazioni interrate che risalgono la Valle del Gavia fino al Rifugio Berni, lavori poi mai proseguiti. I più attenti, salendo al Gavia, avranno notato quelle decine di tubi in plastica neri a bordo strada poco oltre il Berni. Ecco, quelli sono i tubi che servono per terminare la tratta, fermi lì da circa 15 anni. La S.C.I. è stata comprata nel 2018 da un imprenditore ed è entrata nel gruppo Carisma S.P.A., società che ha sborsato notevoli somme per ultimare ed ampliare le opere nella skiarea di Santa Caterina Valfurva, perla della montagna lombarda e non solo, spesso ricordata per gli scempi ambientali attuati nel 2005 con i mondiali, con molte opere ancora non ultimate e discusse. Tra queste è tornata alla carica per ultimare questo progetto per l’innevamento artificiale. Prima di proseguire faccio una breve premessa: queste delibere sono prese dal Comune di Bormio, e non di Valfurva, in quanto è proprietario di diversi terreni, tra cui anche la zona del Lago Bianco e del Passo, nella Valle del Gavia, per un’estensione di poco più di 400 ettari. Con la delibera numero 28 del giorno 28 Luglio 2020, il Comune di Bormio, ha dato autorizzazione alla S.C.I. (con richiesta pervenuta il 7/05/2020) per procedere all’ultimazione dell’opera di interramento tubi e quindi alla captazione delle acque del Lago Bianco. Il comune gli ha garantito la servitù per anni 20 con un canone annuo di euro 100, con l’obbligo di ripristinare i pascoli ed i terreni attraversati dopo la posa delle tubazioni in PVC e la realizzazione della presa a bordo lago di circa 10 metri quadri.
Non sanno più dove andare a prendere acqua per innevare le piste, ora si è arrivati ad interrare tubi per chilometri e chilometri, sventrando valli prima incontaminate per la neve artificiale. Solo due consiglieri di minoranza si sono detti contrari, specificando che il turismo a Santa Caterina è nato per la famosa acqua ferruginosa, sparita dopo la realizzazione degli impianti e delle piste da sci; con quest’opera si andrebbe a toccare l’unico esempio di tundra artica presente sulle Alpi, ritenendo quindi uno sfregio per il Lago Bianco e la Valle del Gavia questo progetto. Un assessore sostiene che durante il periodo estivo la presenza dell’acqua nel lago sarebbe garantita grazie ad una serie di sensori che regolerebbero il prelievo e garantirebbero quindi un livello minimo di invaso. Per compensare un eventuale squilibrio sarebbe prevista una seconda tubatura per pompare acqua in senso inverso dal Berni fino al lago, pura follia insomma. Approvando questa delibera è indicato che si revocano due vecchie delibere del 1998 e del 2004 (delibere che presumibilmente hanno bloccato i lavori) perché in contrasto con quella attuale
Quando vedo comuni approvare cose simili la rabbia monta a mille, non ci sono altre parole, ma almeno rendo conto di quanto è accaduto in alta Valtellina e soprattutto passato quasi inosservato.
Quis custodiet custodes?
Dov’è il Parco Nazionale dello Stelvio quando c’è da fare il lavoro per cui è nato oltre 80 anni fa? Ormai è agli occhi di tutti che è diventato solo un ente burocratico, fatto di politici che sanno fare i forti con i deboli ed i deboli con i forti. Multano ed alzano la voce con un residente che allarga una finestra di una baita o taglia una pianta che stava crollando in mezzo al sentiero, ma permettono come se nulla fosse che una società impianti scavi una vallata per chilometri per interrare tubi di plastica, per rubare l’acqua ad un lago che sta lì, Dio solo sa da quanti secoli, per innevare le loro piste da sci.
Quel Parco dello Stelvio il cui statuto, approvato e vigente dal 19 Febbraio 1998, parla chiaro: all’articolo 4 si parla delle finalità per le quali questo ente è nato, al primo punto cito testualmente: “protezione della natura, proteggere e conservare l’integrità degli ecosistemi e della loro dinamica naturale, nonché degli elementi naturali rappresentativi per la loro importanza naturalistica, geologica e geomorfologica, paesaggistica, ecologia e genetica.” Al secondo punto: “tutela del paesaggio, conservare l’armonica interazione fra natura e cultura anche attraverso una pianificazione paesaggistica e territoriale che tengo conto delle forme di sviluppo sostenibili, garantendo e sostenendo l’agricoltura di montagna e le altre attività economiche compatibili.”
Il Parco è stato soppresso nella sua gestione nazionale nel 2015, e diviso in diverse aree a seconda della regione di appartenenza, dando alle province ed alle regioni il compito di gestirlo: per la Lombardia la gestione è affidata ad ERSAF. Anche se questa intesa disciplina la gestione a diversi territori il Parco continua ad essere unitario e nazionale. Non è chiaro però come il Parco attualmente posso vigilare, prendere decisioni e soprattutto bloccare scelte fatte da singoli comuni per quanto riguarda le opere da costruire nel proprio territorio di competenza, come appunto nel caso del Lago Bianco in cui il comune di Bormio ha di fatto autorizzato da solo la società impianti di Santa Caterina ad operare su territorio sì di Bormio, ma che più ampiamente dovrebbe essere protetto e tutelato dal Parco. Un interessante approfondimento è stato fatto proprio in occasione di questa divisione settoriale del Parco da parte di Alessandro Gogna grazie al supporto di Carlo Alberto Graziani, in passato anche membro della commissione europea per la protezione dell’ambiente; infatti secondo la ricerca, nonostante la suddivisione, il Parco Nazionale persiste ancora come persona giuridicamente rilevante, soggetto cioè dotato di capacità giuridica, quindi deve potersi avvalere di organi adeguati per esercitare sia i poteri che ancora gli spettano sia i nuovi poteri (di indirizzo e coordinamento, di controllo, di sostituzione) che gli derivano proprio dal fatto che le funzioni di gestione e di tutela sono state trasferite alle Province e alla Regione. Per la legge quadro sulle aree protette (legge 394/1991), che continua a rappresentare il riferimento fondamentale, è d’obbligo che il Ministero venga messo concretamente in condizione di vigilare e di controllare (attraverso l’invio degli atti, le ispezioni, ecc.) se e come il Parco, in tutto il suo territorio, venga gestito, tutelato ed in particolare se la gestione si svolga in armonia con la normativa statale ed europea. C’è quindi un alone sospetto di illegittimità di quest’intesa tra Stato e Regioni, perché effettivamente non si riesce a capire come il Parco possa assumersi responsabilità ed operare come un Parco nazionale dovrebbe. Il problema investe il Comitato di coordinamento e di indirizzo che, per come è stato previsto, non appare dotato di soggettività, è semplicemente un organo di “raccordo istituzionale”. E i comitati di “raccordo istituzionale” non sono in grado di svolgere attività che producano effetti giuridici direttamente nei confronti dei terzi.
La natura di quest’organo costituisce la principale e più grave stortura perché priva il Parco-persona del potere di operare giuridicamente e perciò della possibilità di svolgere il ruolo di parco nazionale che gli compete. In altri termini, l’Intesa contiene al suo interno questa contraddizione: da un lato conferma la persistenza del Parco-persona, dall’altro gli impedisce qualsiasi operatività. Appare quindi evidente l’illegittimità dell’Intesa perché priva il Parco Nazionale dello Stelvio, che è istituzione dotata di soggettività giuridica, di esprimere tale soggettività e gli impedisce perciò di operare in quanto soggetto unitario titolare di poteri e di doveri. Da questo decreto legislativo che divide quindi il Parco, è evidente che esso ne esce profondamente ridimensionato, proprio perché la sua qualifica non corrisponde più alla sostanza con la quale è stato fondato. Inoltre l’Italia sarebbe esposta a gravi responsabilità di diritto internazionale in quanto l’assetto organizzativo prefigurato nell’Intesa rischierebbe di precludere l’effettivo rispetto degli obblighi che discendono da numerose convenzioni internazionali e comunque impedirebbe al Parco di agire unitariamente nei rapporti internazionali volti alla cooperazione in materia di protezione ambientale. E’ quindi giusto dire “c’era una volta il Parco Nazionale dello Stelvio”, perché oggettivamente, ad oggi sembra non essere in grado di svolgere alcun compito, come appunto bloccare scempi ambientali come questo sul Passo Gavia, lasciando liberi anche i comuni di poter prendere decisioni che probabilmente, devono invece passare sulla scrivania dei dirigenti di quella che resta l’area protetta più grande delle Alpi, dove quei punti cardine citati prima sui quali si fonda il parco, dovrebbero essere ben tenuti presente.
Tornando a noi, all’inoperatività del Parco aggiungiamo anche che i costi di innevamento sono quasi totalmente a carico dei contribuenti ed il gioco è fatto, si chiudono gli ospedali in Valtellina ma per la neve OGM i fondi ci sono sempre come ha saggiamente dimostrato Regione Lombardia. Nel calderone ci mettiamo anche i sindaci con i loro assessori, che si battono per la sanità come dovrebbero, dimenticandosi però di combattere anche per salvaguardare il loro territorio da abili sfruttatori, come se la natura in cui viviamo serva solo per business, quando intorno a quella natura incontaminata si dovrebbe sviluppare il turismo con cui le valli dovrebbero vivere. Quanta amarezza, quanta delusione, quanta rabbia nel vedere ancora una volta questo scempio di plastica, lì fermo da 15 anni in attesa di essere interrato.
Un malato terminale
Lo sci, che piaccia o no, è un malato terminale che si vuole tenere in vita a tutti i costi, economici ed ambientali, senza voler aprire gli occhi per trovare soluzioni. Questa è veramente la cosa che mi manda in bestia: perché quei soldi con cui paghiamo le cure al malato terminale all’ultimo stadio, sono soldi di tutti noi, che possono essere spesi in maniera più lungimirante ed intelligente, per noi che con la montagna viviamo insieme alle nostre famiglie e per il pianeta che ci ospita.
Lasciamo la Valle del Gavia intatta, lasciamo il Lago Bianco come madre natura lo ha fatto, forse un domani le future generazioni ci ringrazieranno, quando, temo in futuro molto vicino, quei tubi non serviranno più a nulla, ma avranno già modificato un delicato equilibrio.