Testo di Giulia Ficicchia – Foto Delfino Sisto Lignani

Nell’alta valle di Susa, agli scialpinisti non dispiace passare qualche ora sul monte Dormillouse. Non è una montagna difficile, sarà forse per questo che piace a tanti. Di bivacchi non ce ne sono mai stati, finché nel luglio del 2019 ne è stato montato uno.
Chi lo ha ideato lo chiama Black Body Mountain Shelter, ma il suo nome ufficiale è bivacco Matteo Corradini e si trova a 2908 metri di altezza. Un giorno, Paolo, il papà di Matteo, si è fatto coraggio e ha espresso un desiderio ad Andrea Cassi e Michele Versaci, architetti e il primo anche amante dello scialpino. Voleva ricordare il figlio con qualcosa che avrebbe apprezzato e usato lui stesso, se un tumore al sangue non se lo fosse portato via a 19 anni, quando la vita dovrebbe essere una linea perfetta fatta con gli sci sulla neve fresca.

Andrea e Michele allora ideano qualcosa che sia rispettosa sia nei confronti di Matteo sia nei confronti dell’ambiente in cui deve inserirsi: guardando i disegni che mi mostrano virtualmente, riconosco subito la forma di una culla, non è molto grande con i suoi due sbalzi laterali con gradoni e un tavolo in centro ma è perfetto per fermarsi, incontrarsi, dormire. Fuori è alluminio nero, senza riflessi, così che accumuli calore e non inquini il paesaggio circostante fatto principalmente di pietre nere; dentro è cirmolo, un legno morbido che non smette mai di sprigionare il suo tipico profumo. Un domani, se ce ne fosse il bisogno, si potrebbe smontare e portare via, ma intanto offre una bellissima vista sulla Val Thuras da una parte e sul massiccio degli Ecrins dall’altra.

Mentre siamo al telefono faccio notare ad Andrea che, nonostante tutto, qualcuno potrebbe storcere il naso, perché in fondo hanno aggiunto qualcosa di antropico in un ambiente in cui non c’era alcuna traccia di questo genere. Ci riflettiamo assieme e capisco che non hanno creato la tipica scatola di latta bianca o rossa, ultima spiaggia per chi cerca un ricovero, ma un punto di incontro lontano dalla città. Su una cosa siamo d’accordo, che abbiamo cominciato a portare con una certa insistenza l’asfalto e il cemento in un habitat che non appartiene loro. In qualche momento della nostra crescita sociale e economica, abbiamo smesso di parlare la stessa lingua della montagna, dei suoi luoghi, a scapito anche di noi stessi che non percepiamo più i nostri sensi, i nostri corpi. Potremmo tornare a essere studenti, è stata una pessima idea considerarci liberi dopo il diploma o la laurea, perché ora più che mai dovremmo imparare. Tra tutte le cose, l’arte della gentilezza, del rispetto, del non lasciare traccia.

Sembra un sogno in questi giorni distanti da tutti immaginare un tramonto o un’alba insieme su quei gradoni, a guardar fuori in silenzio, ma quando finisce la nostra telefonata, so che non c’è posto migliore in cui rincontrarci e confrontarci assieme, quando tutto questo passerà.

ph Andrea Cassi