Testo e foto: Elisa Bessega
IG @umeshoku
“Se ce la caveremo, non sarà perché avremo imparato a fare shopping in modo “etico” ma perché avremo trovato altro da fare. Ad esempio, costruire movimenti politici e sociali che cambino le regole del gioco. O trarre piacere da esperienze che non possono essere comprate, come stare nella natura o con le persone che amiamo”
Naomi Klein
Mentre nello Yosemite si conducono campagne ambientali per la de-urbanizzazione già dagli anni 80, sembra che in certe zone delle Alpi l’unico modello turistico che le amministrazioni si affannano a seguire sia quello del costruire ad ogni costo.
Avevo da poco concluso la mia prima traversata della catena del Lagorai quando si è acceso il dibattito sul progetto di riqualificazione e valorizzazione dell’area. Provincia di Trento, SAT, magnifica Comunità di Fiemme e comuni limitrofi avevano firmato un accordo per “Dare nuova vita e valorizzare il percorso “Translagorai” e [..] rimediare al problema dell’inadeguatezza dei punti-tappa lungo il percorso”, così si legge sul comunicato ufficiale dell’agosto 2018[1].
Abituata a pensare che “valorizzazione” sia il solito paravento linguistico dietro al quale nascondere programmi speculativi, non mi ha stupito scoprire, approfondendo l’accordo di programma[2], che la loro idea di promozione del patrimonio ambientale e paesaggistico si traducesse di fatto nel creare nuovi agritur a media quota e una campagna marketing per promuoverne la frequentazione (parliamo della trasformazione di malghe e bivacchi esistenti in ristoranti con fino a 40 posti a sedere, sempre per preservare il patrimonio edilizio tradizionale[3]).
Il Lagorai è una distesa incontaminata di pietraie, boschi e creste affilatissime di roccia nera. Un luogo dell’anima in cui trovano rifugio orsi in fuga da ordinanze di cattura[4] e umani in fuga dagli affollati parchi(giochi) delle vicine Dolomiti. 80.000 ettari di montagne con scarsissimi segni di antropizzazione, forse l’ultima area in Trentino non segnata dall’industria del turismo di massa dove è ancora possibile piantare una tenda (mentre nei parchi naturali circostanti il divieto di minacciare l’ambiente bivaccando in autonomia convive felicemente con l’organizzazione di raduni di Jeep 4X4 per valorizzare il territorio[5]).
Le toilette in quota
Diversamente dalla maggior parte dei cammini di lunga percorrenza dotati di strutture ricettive al termine di ogni tappa, l’attraversata del Lagorai richiede di sapersi autogestire lungo una rete di sentieri storici ben tracciati percorribile in media in 4 o 5 soste. I rifugi esistenti si trovano a bassa quota nella zona iniziale e finale, lungo il percorso se ne incontra solo uno con pernotto, per il resto o si scende a valle oppure ci si affida alla tenda e ai bivacchi: una peculiarità che le amministrazioni locali e i progettisti definiscono “inadeguatezza”, perché “E’ evidente che le persone che viaggiano lungo la catena montuosa avranno la necessità, oltre che dormire, di lavarsi e cibarsi”[6], come se l’essere umano si fosse dimenticato l’antica arte di scavare un buco per terra e accucciarcisi sopra.
Per porre rimedio a questa imperdonabile carenza di toilette in quota, è stata prevista la ristrutturazione edilizia di 1 rifugio e di 6 malghe-bivacco creando 3 nuovi ristori gestiti. Nessuno di questi lungo l’unico tratto di percorso davvero sprovvisto di punti di appoggio, ma tutti strategicamente vicini a vie d’accesso percorribili in auto dal fondo valle. Potrebbe sembrare poco se paragonato all’affollamento delle passeggiate panoramiche che costeggiano altri massicci montuosi (Ad esempio il vicino giro del Sasso Piatto. Un anello di 10 chilometri costellato da ben 13 malghe e rifugi, molti dei quali raggiungibili per mezzo di impianti, servizi navetta su jeep e motoslitte).
Poco, ma abbastanza da compromettere il carattere incontaminato del territorio e scatenare una catena di polemiche da parte degli abitanti delle valli limitrofe e dei frequentatori della zona[7], preoccupati, più che dall’impatto della singola struttura ricettiva, dal significato globale di un’operazione che sembra voler piegare un ambiente così delicato, forse l’unico rimasto tale, ai capricci del più pigro ed inquinante dei diversi turismi montani possibili.
Volevo tornare in Lagorai, vedere da vicino come i lavori lo stessero trasformando. Mi sentivo coinvolta personalmente in quel dibattito e speravo non si esaurisse nel solito insabbiamento che segue al clamore mediatico dei primi giorni.
È così che è nata l’idea di organizzare un’attraversata a impatto zero in totale autonomia: per prendere parte alla discussione portando non un’opinione ma una testimonianza e per raccontare di altri modi possibili di valorizzare un’area incontaminata, ovvero mantenerla così com’è. Rendere onore alla sua natura selvaggia rispettandone in prima persona la vocazione e senza lasciare tracce del proprio passaggio.
La sfida, dunque, era ridurre il più possibile l’impatto di un trekking di almeno quattro giorni: muoversi dall’inizio alla fine senza auto, utilizzare solo scorte di cibo autoprodotto in modo da creare il meno scarti possibile, e non appoggiarsi a nessun rifugio.
L’immondizia pesa
Nella presa di posizione della SAT si legge che la trasformazione dei bivacchi esistenti in nuovi punti tappa gestiti non avrebbe solo la funzione di facilitare l’attraversata, ma rappresenterebbe anche l’unica soluzione al problema dell’incuria in cui versano molte delle strutture, menzionando in particolare la spazzatura abbandonata dagli escursionisti negli edifici non gestiti[8]. Potrà sembrare poco rilevante, ma l’anno precedente, affrontando questo stesso trekking con alcune amiche, il grosso dei rifiuti proveniva proprio dal cibo. In 4 giorni avevamo creato più spazzatura di quanta ne facessi io a casa in settimane. Noi ce la siamo portata sulle spalle fino alla fine ma, è vero, in molti non facevano lo stesso.
Ma, allora, piuttosto che investire in nuovi “bivacchi gestiti”, non ha più senso sfruttare quelli esistenti per educare chi li visita? Passare più giorni in montagna in autonomia ti forza a prendere coscienza di quanta spazzatura produci. Sei obbligato a far posto nello zaino per portarla tutta con te, mentre a casa hai l’impressione che una volta gettato nel cestino il tuo rifiuto smetta di esistere e che non sia più un tuo problema.
Eravamo partite per stare a contatto con la natura ma stavamo mantenendo stili di consumo cittadino, ed è stata proprio l’assenza di punti di appoggio intermedi a permetterci di rendercene conto.
Per la Translagorai no-waste di quest’anno ho sostituito i bustoni di zuppe liofilizzate, scatolame e porzioni mono dose dell’anno precedente con colazioni, snack, pranzi e cene preparati a partire da materie prime acquistate sfuse localmente, disidratati e conservati in sacchetti riutilizzabili. Si è trattato di ingegnarsi per creare una versione a lunga conservazione dei più comuni cibi preconfezionati e portare in ambiente montano l’esperienza di anni di autoproduzione casalinga (è da un po’ che provo a sopravvivere senza supermercato facendo a casa saponi, detersivi, creme ecc. ma questa è un’altra storia).
Siamo partiti lo scorso settembre in due, con 1,5kg totali di scorte per 4 giorni, quella che era una sfida per ridurre l’impatto sull’ambiente si è rivelata allo stesso tempo un’ottima soluzione per alleggerire lo zaino ed evitare il rischio di “dimenticare” rifiuti pesanti in bivacco.
La pioggia: soffrire fa parte del gioco
Il percorso tradizionale si svolge per lo più in quota lungo creste e colli, segue vecchie mulattiere costruite in tempo di guerra e superando un totale di 5000 metri di dislivello positivi unisce Passo Rolle al monte Panarotta. Il progetto di riqualificazione prevede di tracciare due itinerari alternativi a quote inferiori in modo che incrocino i nuovi punti tappa gestiti, giustificando tale scelta anche con la necessità di creare vie di fuga agevoli in caso di maltempo.
Beh… Il nostro viaggio si è svolto interamente sotto alla pioggia. Le vie di uscita abbiamo dovuto cercarle e pianificarle bene prima di partire, ma le abbiamo sempre trovate. Protagonista indiscussa già dalla sera del primo giorno, la pioggia costante ha trasformato l’attraversata in una caccia strategica ai bivacchi dotati di stufe funzionanti per asciugare i vestiti tra una tappa e l’atra. Ci ha obbligati a ripararci nella grotta magica del Teatin, rannicchiati su assi ammuffite al ritmo delle gocce d’acqua che percolano dalla roccia. Ci ha regalato l’occasione di poter passare un giorno intero di solitudine al riparo del modernissimo Coldosè, a godere del silenzio e sonnecchiare davanti al fuoco mentre fuori l’alternarsi di cumuli di nuvole temporalesche e schiarite improvvise rendevano quasi surreale un ambiente già tanto austero.
Sapevamo che sarebbe arrivata proprio nei giorni che ci eravamo tenuti liberi per partire, ma abbiamo deciso di farlo lo stesso. Rinunciare all’idea che l’esperienza dovesse per forza essere un successo era parte della sfida di muoversi nel rispetto della vocazione del luogo. Il Lagorai è notoriamente piovoso e inospitale ed eravamo pronti ad adattarci. Abbiamo ottenuto in cambio la possibilità di viverlo nella sua veste più intima e autentica.
Certo, non auguro a nessuno il piacere di iniziare la giornata al freddo, infilando i piedi nei calzini umidi che la vecchia stufa non è riuscita ad asciugare durante la notte e poi negli scarponi fradici dal giorno prima, oppure quello di affrontare la tappa da 25 km nel diluvio incessante (mentre il gore-tex che ogni anno ti riproponi di cambiare lascia filtrare l’acqua sulla schiena, giusto dalla cucitura tra collo e cappuccio).
E infatti l’attraversata non l’abbiamo terminata. Raggiunta Malga Lagorai siamo scesi a valle lungo la mulattiera che porta all’abitato di Ziano di Fiemme, e da lì abbiamo trovato un passaggio di fortuna in piena notte fino a casa. Su un totale di 80 km, ne abbiamo percorsi la metà, e l’abbiamo fatto nello stesso tempo che avevo impiegato l’anno prima a terminarla.
Eppure, la scelta di mettere in secondo piano l’obbiettivo rispetto al modo in cui lo si raggiunge ha reso l’esperienza di quest’anno molto più densa.
Chissà forse se al posto di ripari essenziali ci fossimo imbattuti in rifugi appena ristrutturati avremmo avuto almeno un paio di mutande asciutte in più, sarebbe stato più comodo trovare una zuppa pronta e non dover lavare le gavette al buio nel magro rivolo di acqua gelida di una fonte. Magari avremmo terminato il percorso. Ma non sarebbe stata una vera Translagorai.
Che cosa c’entra il Clean Climbing?
La SAT sostiene che la promozione dei lunghi itinerari abbia un senso solo se passano attraverso punti tappa gestiti, paragonando questo trekking ai molti altri esistenti come il San Vili, il Frassati, il Sentiero degli Dei, le Alte Vie in Dolomiti[9], e ribadendo che resta immutata, per chi lo desidera, la libertà di continuare a percorrerlo in autonomia.
È come parlare di clean climbing riducendo tutto alla questione di ignorare gli spit esistenti, se proprio si vuole arrampicare trad. Ma quello che sta dietro alle istanze di de-urbanizzazione e preservazione dei territori rimasti integri è un pensiero molto più ampio, non si limita alla sfida di arrivare in cima senza servirsi dei vari ausili creati per facilitare la frequentazione della montagna. Risponde all’esigenza di ridimensionare l’impatto umano sull’ambiente per ristabilire con la natura un rapporto di parità che trascende il momento sportivo.
Chi ha percorso i cammini sopra citati sa benissimo che questo non accade se si incontrano in continuazione i segni della necessità di monetizzare ad ogni costo. Promuovere la tutela della wilderness come valore in sé e per sé è fare in modo che il Lagorai non diventi l’ennesima occasione sprecata di sperimentare un modello di turismo più moderno e più sostenibile, ma soprattutto significa diffondere una controcultura che non riguarda solo l’attività outdoor.
The end: non solo ecologia
L’impatto zero, (che bisognerebbe definire “quasi” zero ben sapendo che quella di non lasciare nessuna traccia del proprio passaggio è un’illusione) è un obbiettivo che nasce da una questione ecologica e va di pari passo con l’attitudine al fai da te, non si tratta di laboratori di riciclo creativo per casalinghe disperate ma del mantra spirituale del do it yourself.
Sperimentare l’autonomia, nella vita quotidiana come nell’outdoor, è il gesto più sovversivo che si possa fare. Permette di tirarsi fuori da un meccanismo di consumo che vende experiences in masse preconfezionate e pronte all’uso, che poi diventano usa e getta perché durano solo il tempo di consumarle. L’usa e getta delle esperienze non è diverso da quello degli oggetti, il 90% dello scarto che produci è la concretizzazione di tutto quello che rinunci a saper fare da solo. Per questo si dice “più cose sai, di meno cose hai bisogno”.
Autoprodurre del cibo da trekking risparmierà al mondo una quantità assolutamente trascurabile di imballaggi leggeri, ma è una scelta che si accompagna a quella di voler essere attore e autore piuttosto che consumatore, e al prendere posizione per mantenere selvagge quelle poche aree che ancora permettono di riappropriarsi di sé stessi e sperimentare l’arte di arrangiarsi.
[1] https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/TransLagorai-si-parte
[2] https://drive.google.com/file/d/10kw6bk_auy-BRu4D9oCVAYMNgdkS1CNn/view,
[3]https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/content/download/139100/2604497/file/180821_TRANSLAGORAI_conferenza_stampa.pdf
[4] https://www.ildolomiti.it/cronaca/2019/papillon-m49-ha-raggiunto-il-lagorai-degasperi-e-in-un-luogo-scarsamente-antropizzato-ora-si-ritiri-lordinanza-di-cattura
[5] https://pareti.it/la-vera-storia-del-raduno-4×4-di-san-martino/
[6] http://lucadonazzolo.it/blog/translagorai
[7] https://www.facebook.com/groups/giuelemanidallagorai/; https://www.ildolomiti.it/societa/2018/la-lettera-della-guida-alpina-alessio-conz-non-toccate-il-lagorai-un-luogo-dellanima-un ; https://www.mountainwilderness.it/editoriale/transalagorai-una-pugnalata-nel-cuore-del-lagorai/
[8] http://www.loscarpone.cai.it/news/items/translagorai-la-sat-spiega-i-motivi-di-una-scelta.html
[9] http://www.loscarpone.cai.it/news/items/translagorai-la-sat-spiega-i-motivi-di-una-scelta.html